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Spettacoli

Gianfranco Berardi e Teatri Reagenti: sul palco è di scena la diversità

Ottobre 28, 2019

Il teatro e la diversità. I teatranti e un impatto con il limite che a volte è personale, e diventa l’occasione per misurarsi con territori inconsueti. Come nel caso di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, di scena fino al 3 novembre all’Elfo Puccini di Milano con “I figli della frettolosa”. Titolo ironico perché – come recita un vecchio adagio –  «la gatta frettolosa fece i gattini ciechi». Lo spettacolo, riflessione caustica e autoironica sulla diversità, parte dalla cecità fisica per affrontare il limite visivo di chi non si sofferma sulle cose. Viviamo un’epoca in cui la velocità sta logorando anche le relazioni umane. La capacità di comunicare richiede  tempi rilassati.

Dunque la cecità come aspetto fisico e come metafora. Berardi e Casolari lavorano sullo smascheramento. Svelano la nostra miopia esistenziale.

 “Eva Martucci in “L’alieno”

Per farlo, coinvolgono un gruppo d’interpreti ciechi e ipovedenti. In questo coro coeso emergono personalità e storie individuali. Ne nasce un affresco contemporaneo attraverso il quale raccontarsi e riconoscersi.

«Siamo qua, padroni dell’invisibile – recita il coro –. Viviamo ai margini della realtà, prigionieri di mondi immaginari. Soli, vaghiamo ciechi, abbacinanti, abbaglianti, stentiamo a stare in piedi. Su questo suolo senza fondo, lottiamo senza sosta. In questo mare in tempesta, pieno di onde che ci spingono in cielo e ci portano giù fino in fondo, è difficile mantenere una rotta. Ma crediamo nell’invisibile e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore».

Dopo la bella esperienza di “Amleto take away”, spettacolo con cui Berardi ha vinto il Premio Ubu 2018, questa nuova produzione rinsalda il legame fra il Teatro dell’Elfo e questi artisti, capaci di mettersi in gioco e di creare reti fra persone.

Parla di diversità alche l’”Alieno”, monologo della compagnia Teatri Reagenti  andato in scena di recente al Festival Tramedautore, al Piccolo Teatro Grassi di Milano.

“L’alieno” di Massimo Donati è un monologo forte, affilato come una lama che attraversa le nostre paure e scoperchia alcuni tabù della società contemporanea. In contrapposizione con la retorica dei buoni sentimenti portata avanti dal cinema e dai media, “L’alieno” mostra il rapporto difficile e doloroso con la disabilità. È il diverso che ci fa paura. “Alieno”, appunto, alle nostre catalogazioni.

In un percorso irto di coscienza dell’impossibilità di mediazione, c’è anche chi nuota controcorrente, provando ad accettare la diversità e ad apprendere una mentalità inclusiva: è Anna, la madre del protagonista della vicenda narrata.

Attraverso una prosa precisa, conosciamo una storia che parla d’amore, famiglia, maternità, rivelando in controluce le derive di solitudine, violenza e abbandono.

Anna è una ragazza anticonformista che nutre il sogno di un amore vero e di una famiglia numerosa. Incontra Matteo, e il sogno sembra prendere forma: la costruzione di un nido famigliare in cui vivere felicemente con semplicità, costruendo una famiglia con almeno sette figli.

I primi anni di matrimonio scorrono tranquilli, fino alla nascita del terzo figlio. Poco dopo Anna rimane nuovamente incinta, ma già dalla gravidanza il quarto figlio si mostra differente, modificando nella donna comportamenti e umori. Una gestazione difficile che termina con un parto complicato e un’isterectomia che tronca per sempre i sogni di future maternità.

“Il premio Ubu Gianfranco Berardi in scena all’Elfo Puccini di Milano

Erri, il nuovo arrivato, appare come un intruso, un violento, brutale, pericoloso già dai primi anni di vita. È subito percepito come un estraneo dai fratelli che ne colgono la profonda diversità. È allontanato dalla famiglia e condotto in una clinica di rieducazione. Fino a quando Anna decide di riportarlo a casa, scardinando definitivamente le dinamiche socio-familiari.

La famiglia felice è destinata a deflagrare per l’incontro con il diverso, trasformandosi fino a estinguersi.

La narrazione asciutta, senza pietismo o retorica, è affidata alla voce materna. Un punto di vista complesso, che consente al dramma di affrontare anche la parte oscura della maternità e della famiglia tradizionalmente intesa.

Sorretta da una regia agile e tesa, Eva Martucci interpreta magistralmente tutte le sfumature emotive del personaggio, attraversando una vasta gamma di corde emotive: la felicità dell’incontro con Matteo, la serenità della vita semplice volta alla costruzione del nido, l’inquietudine e il dramma di una gravidanza e un parto difficili. Infine l’ostinazione alla ricerca dell’unità perduta.

A fare da sfondo, una scenografia (di Agnese Bellato) semplice ed essenziale: un grande soggiorno che diventa con un gioco di luci (disegnate da Monica Gorla) ora sala da ballo, ora sala da pranzo di una grande villa in campagna, ora soggiorno desolato di una famiglia di cui sono rimasti i brandelli.

Vincenzo Sardelli e Laura Timpanaro

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